SPORT – Clima partita : quando la gara è (già) in testa

Due domande, che chi gravita intorno ad atelti e squadra si fa raramente, sono le seguenti : Quand’è che il mio giocatore/atleta entra in “clima partita/gara” ? In che modo entra in quello stato di concentrazione e focus ? Come posso aiutarlo in tal senso ?

Ogni atleta ha una sua metodologia, più o meno palese per iniziare ad attivarsi.

Conoscere tempi e modi di questa fase cruciale, vuol dire sfruttare quei “trigger” che innescano quello stato funzionale o addirittura, ci aiutano a evitare di comunicare in modo incongruente rispetto al momento in cui quell’atleta si trova.

Sapere se i vostri atleti hanno una “routine pre gara” più o meno consapevole e far predere loro coscienza di alcuni automatismi che in maniera inconscia ripropongono come un mantra, è una delle chiavi per entrare in sintonia con gli atleti stessi e permetter loro di entrare di comprendere come collegare azioni, emozioni e focus ed essere pronti all’azione.

Le routine sono molto efficaci per dare all’atleta una modalità esecutiva funzionale alla realizzazione del proprio compito sportivo. Nello specifico ci sono sette indicazioni sulle routine che tutti gli addetti ai lavori dovrebbero conoscere, perchè la si può applicare a tutto lo staff.

1 – La routine aumenta il senso di familiarità di un ambiente anche se nuovo o estraneo e più sono traferibili, trasportabili e adattabili, più sono efficaci. Pensate alla musica ad esempio. Ha tutte le caratteristiche suggerite prima ed è un’ottimo veicolo per cambiare lo stato dell’atleta

2 – La routine aiuta l’atleta a mantenere il focus su cosa deve fare e rimanere quindi attivo, scollegandolo dal “self talk” (dialogo interno) che porta a pensare e molto spesso a blaccarsi su pensieri che andranno in loop portanto l’attenzione alla deriva.

3 – La routine aumenta la fiducia perchè è sotto il totale controllo dell’atleta. Più quella routine sarà ripetuta in allenameno e in gara, più diventerà parte dell’atleta stesso, ricordadogli di averla già applicata decine se non centinai di volte. La regola delle regole è : “Allenati come se gareggiassi, gareggia come se ti allenassi”.

4 – Le routine contribuiscono a far diventare dei nuovi skills degli atteggiamenti. Questo rende le azioni acquisite, automatiche che, lavorando sotto il livello di coscienza, diventano parte dell’individuo. Routine positive costruite ad hoc per e con l’atleta, lo aiuteranno a superare quei problemi di concentrazione in cui molti incappano.

5 – Le routine aumentano la probabilità che il cervello lavori solo sugli aspetti necessari, evitando quelle interferenze e distrazioni dovute all’ambiente circostante, a vantaggio della completa focalizzazione sugli aspetti che impattano in mniaera positiva la performace.

6 – Le routine aiutano a ridurre il flusso dei pensieri e a eliminare o limitare in maniera importante, i processi decisionali. Un pensiero legato alla gara e alla performance, in quando metro di valutazione esterna (o interna) rispetto all’operato dell’atleta stesso, può essere fonte di pressione. Questo processo trasforma il pensiero in una preoccupazione e anche le decisioni più semplici vengono portate all’estremo, portano l’atleta a bloccarsi, perdendo tempo ed energie preziose.

7 – Le routine aiutano ad evitare errori stupidi.Quando un atleta è sotto pressione ha una dispersione di focalizzazione e di energia maggiore ed essendo più vulnerabile è quindi più prodisposto all’errore. Evitare di sperimentare o cambiare una strategia allenata o consolidata quando si è sotto pressione, è una saggia scelta perchè contrarimente, questo implicherà quasi sicuramente commettere un errore, vanificando tutto il lavoro fatto a monte per se e per la squadra. Rimanere concentrati e legati ad una routine consolidata, evita che la mente prenda la deriva cercando soluzioni alternative o strategie nuove per raggiungere l’obiettivo.

Questo è solo un preambolo propedeutico a ad una serie di esercizi funzionali a strutturare in modo efficace, una o più routine per atleti e staff.

…e voi,  quanto davvero conoscete i vostri atleti e collaboratori ?

BUSINESS – Ad ogni squadra il suo leader

Esistono moltissimi tipi di squadre e solo sei modelli di leadership e non è detto che un leader efficace con una squadra, lo sia con altre  squadre con caratteristiche diverse.

Se vogliamo comprendere l’impatto di un leader in un contesto lavorativo, prima è importante capire che, il successo della leadership e l’efficacia della leadership stessa, non sono la stessa cosa, ma sono due cose profondamente diverse.

Il successo può essere definito da un valore assegnato dai superiori o dal sistema entro cui il team e il leader lavora (numero di ordini ricevuti, fatturato, margine operativo, riduzione dei costi di qualità, trattenimento dei talenti…etc…) o dalla “promuovibilità” dei soggetti che fanno parte del tem. Segnali o indicatori di una leadership di successo sono :

  • Un’intelligenza generale estesa e performante, del gruppo e di ogni singolo individuo
  • Buone capacità relazionali interne del team, leader compreso

L’efficacia può essere definita dalla prestazione della squadra e dunque da una valutazione (vera, onesta e sincera) dei membri della squadra stessa. Indicatori dell’efficacia della leadership sono :

  • Le comunicazioni di routine (feedback non giudicanti)
  • La gestione di questioni relative alle risorse facenti parte del team

Alla base di quanto sopra, la capacità di recepire feedback negativi della squadra (come parte delle comunicazioni di routine) è la chiave di volta per distinguire una leadership efficace (positiva) e una inefficace (negativa).

Abbiamo detto che un leader efficace con una squadra, non è detto che possa esserlo con altre  squadre con caratteristiche diverse.

Vediamo le quattro tipologie di squadre identificate da Eddie Obeng

  • Squadra in orchestra
  • Squadra in missione
  • Squadra in avanscoperta
  • Squadra improvvisazione

Una squadra in orchestra viene disegnata come un meccanismo sincronizzato, con tutti gli ingranaggi che lavorano insieme secondo schemi chiari, definiti e ripetitivi. Il grado di libertà di azione dei singoli membri è pressochè nullo (Es. fabbrica) e il mantra della squadra è : “Noi sappiamo cosa fare e come farlo”

Una squadra in missione è una squadra costruita ed assemblata con persone esperte di un deteminato settore e ha come obiettivo unico, quello di trovare una soluzione a un singolo problema. Caratteristiche di questo modello sono ad esempio le squadre strutturate per portare a termine un progetto o un programma.

Una squadra in avanscoperta assomiglia molto ad una “squadra in orchestra” e lavora con routine chiare e ripetitive ma con un obiettivo sconosciuto o poco definito. Sembra una cosa abbastanza strana, avere delle routine predefinite e ripetitive, ma non avere un obiettivo, ma se pensiamo a chi produce serie televisive, Tv oppure gli ospedali o le università, iniziamo ad inquadrare meglio la tipologia di questa squadra.

Una squadra improvvisazione può essere descritta come alcune le squadre di Ricerva e Sviluppo, di innovazione, le squadre di marketing o le strat up. Tutte queste sono squadre con relativamente poca sicurezza o accordo, ma in cui l’improvvisazione, la spontaneità e l’errore non intimoriscono, hanno un alto potenziale di crescita e di sperimentazione innovativa, forti della fiducia e la compressione degli altri membri del team.

Dopo aver definito le tipologie di squadre, vediamo che tipologia di leadership è necessaria affinchè queste squadre possano essere performanti al massimo.

Squadra orchestra : Richiede una leadeship di monitoraggio con un alto livello di qualità e competenza per continue messe a punto. Il rischio più elevato di una leadership del genere è quello di un eccesso di controllo che soffoca il team. Andateci piano !

Squadra in missione : La leadership è esercitata, mantenendo l’attenzione e il focus del team con continui stimoli e sfide. Il leader ottimale è quello molto presente nel “daily job” e che lavora con gli altri membri della squadra spesso come “peer” evitando di esercitare una pressione “top – down”.

Squadra in avanscoperta : La leadership qui deve essere molto “leggera”, quasi un accompagnamento nell’esplorazione, fornendo feedback di qualità e stimolando un confronto interno du come la squadra sta andando e quali sono le azioni correttive o migliorative che dovrà mettere in pratica.

Squadra improvvisazione : Lavora per “cicli di apprendimento” e/o “cilci di scoperta”. In questa situazione la leadership può avere il vantaggio di essere molto riflessiva, supportando i pounti di vista dei membri de team e spronarli ad una analisi di dettaglio, con l’obiettivo di disegnare scenari quanto più reali e solidi possibili.

 

E tu di che squadra fai parte o di che tipologia squadra sei leader ?

BUSINESS – Il cambiamento, Darwin e i dinosauri

“Non chi è più forte o più intelligente vince,
vince chi si adatta meglio al cambiamento”

Questa frase la scriveva il noto antropologo britannico Charles Darwin, padre della teoria evolutiva, in merito alla scomparsa o sopravvivenza delle specie animali e se è stato vero in natura, oggi in chiave business, si scopre che niente rispecchia meglio di questa frase se la accostiamo al momento storico attuale per qualsiasi tipo di business.
A partire dalla piccola e media impresa, fino alle grandi multinazionali, il cambiamento è un processo inevitabile che prima o poi deve essere affrontato.

Ci sono due modi per affrontare il cambiamento :

– IN MODO REATTIVO, o meglio rispondendo alla domanda di mercato quando si è costretti (e quindi spesso è troppo tardi)
– IN MODO PROATTIVO, ossia anticipandolo cercando se non di azzerare, almeno limitare gli impatti più significativi, e perfino diventare pionieri.

Esisterebbe anche una terza possibilità che, per la legge di Darwin è bene non considerare, e cioè ignorare il sopraggiungere di un cambiamento e sperare che passi. Se chiedete ai dinosauri, capirete cosa hanno scelto di fare.

Tutto cambia intorno a noi.
Il tempo metereologico, le stagioni, noi stessi cambiamo di giorno in giorno, di anno in anno e se da una parte il cambiamento naturale è un ciclo che si ripete, il cambiamento nel business è un cambiamento incrementale.
Pensate a quando andavate a scuola negli anni ’90. Si studiava sui libri, si scriveva con carta e penna, quelli più “avanzati”, sbobinavano usavano la macchina da scrivere e poi, nel giro di quindici anni sono arrivati i PC nell case, i cervelloni elettronici nelle aziende, sono nati i cellulari, e poi i tablet, fino agli smarphone ed abbiamo smesso di scrivere, dettando i messagi direttamente al telefono.

IL cambiamento è necessario per muoversi da oggi, verso il futuro e nelle aziende, per fare nostro il cambiamento, dobbiamo farci tre domande fondamentali :

1 – Dove stiamo andando ?
2 – Quali sono i parametri che ci faranno capire che abbiamo realizzato il cambiamento ?
3 – Quali sono gli eventi che devono accadere affinchè possiamo dire di essere giunti a destinazione ?

Non è semplice rispondere a queste domande, ma dobbiamo sempre tenere a mente che qualsiasi tipo di azione comporta cambiamenti più o meno radicali nelle strutture, nei team e soprattutto dentro le persone. Gestire il cambiamento in maniera chiara, conferisce alle persone un senso di protezione. Un messaggio chiaro che suona come : ” Ok, sappiamo dove stiamo andando. Diamoci dentro !”

L’evoluzione aziendale e il cambiamento più superficiale o più profondo è mosso da almeno quattro fatori interni (Necessità di una crescita, un nuovo tipo di management, fusioni e acqsuisizioni, necessità di implementazione tecnologica o cambio di strategia) e quattro fattori esterni (Concorrenza, pressione sui costi, cambiamento dei mercati e/o delle norme che regolano un dato settore).
Da qualsiasi punto di vista analiziamo la cosa, c’è una implicazione tattica e strategica che coinvolge a 360 gradi non solo le strutture gerarchiche interne, ma anche e sopratutto le persone e l’ambiete in cui le persone operano.

L’ambiente è il primo livello di una scala di sei elementi, che fa da cartina di tornasole di come viene gestito un cambiamento, più l’ambiete sarà sereno, migliori saranno gli impatti sui livelli successivi e più profondi, che ogni persona porta dentro di se.

Per chi vorrà continuare a seguirmi…scopriremo perchè cambiare non solo è importante, ma è di importanza capitale per rimanere sul mercato.

BUSINESS : Gestione del feedback

Va molto di moda parlare di feedback, della cultura del feedback, di dare feedback o di richiedere feedback, ma quanti davvero ne sanno rilasciare uno di qualità o percepirne le caratteristiche ?

Spesso e forse molto più spesso di quello che crediamo, il feedback viene percepito dalla controparte, come un giudizio sulla persona, pur avendo premesso che non deve essere interpretato in quel modo. Se parliamo a livello linguistico dell’avverbio “non”, potremmo aprire una parentesi enorme e credo sia giusto farlo, ma non adesso. Questo sarà oggetto di un altro post nella sezione lifestyle…ma solo per i curiosi !

Allora, qual è il trigger che che fa sconfinare il processo di feedback nell’area personale tanto da farlo recepire in maniera distorta ?

Iniziamo prima di tutto a fare un po’ di ordine.

Sento dire che i feedback devono essere sempre dati in positivo. Quando mai ?

I feedback possono essere dati anche in negativo, ma devono essere strutturati in modo che il nostro interlocutore, possa trarne il maggior vantaggio possibile e per fare questo ci vengono in aiuto i livelli di pensiero a cui un determinato soggetto fa riferimento quando emette un feedback.

Dire ad una persona : “Sei un pessimo manager o sei un pessimo giocatore” o dire “la tua performance è stata al di sotto delle aspettative”, c’è un’enorme differenza.

Perché se argomentare la performance, agisce su un comportamento che può essere migliorato, il primo feedback punta direttamente all’identità del nostro interlocutore, colpendo la parte più profonda della sua persona, facendolo sentire inadeguato e giudicato.

I danni di un feedback dato male, possono essere enormi, in quanto innescano un effetto domino che va a ripercuotersi sulla persona sotto molteplici aspetti, minando tutta una serie di livelli che lo influenzeranno non solo sul lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni.

LIFESTYLE : Un cervello moltiplicato per tre

Alla frase : “Accendi il cervello !” anni fa mi sarei infuriato come pochi, oggi in realtà più che una reazione, scaturirebbe in me una domanda molto più semplice : “Quale cervello dovrei accendere secondo te?”.

Vi lascio immaginare per un attimo la faccia del mio interlocutore!

La riposta potrebbe essere spiazzante, ma non per chi ha letto qualcosa sulle neuroscienze.

Già, perché se fino a qualche tempo fa pensavamo di avere “solo” un cervello quello encefalico, ma da alcuni anni ci hanno incasinato ancora di più le cose informandoci che fisicamente abbiamo ben tre cervelli.

  • Il primo cervello (o cervello encefalico) è quello più conosciuto e alloggia beatamente da tempi immemori nel nostro cranio ed è uno degli artefici della costruzione della nostra realtà, dei nostri pensieri e dei processi logici ed è influenzato in queste sue attività da processi molto più complessi.
  • Il secondo cervello (o cervello enterico) si trova in tutto l’apparato digerente ed è formato da un numero di neurotrasmettitori che oscilla tra i 200 e i 600 milioni. Per darvi un’idea…paragonabile al cervello di un gatto.
  • Il terzo cervello è il cervello cardiaco che, formato da circa 40.000 neurotrasmettitori, sente, pensa e decide in maniera del tutto autonoma. Il cervello cardiaco, esattamente come il cervello enterico è intimamente legato all’encefalo, tant’è che entrambi gli inviano continue informazioni, attivando o inibendo diverse aree cerebrali a seconda delle necessità.

L’interazione tra questi “tre cervelli” regola, non solo le nostre funzioni biochimiche, ma è anche responsabile della costruzione della realtà, delle nostre percezioni, delle nostre emozioni e di come gestiamo i vari stati che ci autocostruiamo durante l’arco della vita.

C’è la credenza radicata che le decisioni che prendiamo, siano gestite e strutturate a livello cognitivo, attarverso una serie di processi logici basati su affinità a situazioni similari pregresse, comparazioni, differenze e molto altro. La realtà è che ogni decisione che prendiamo è legata profondamente e intimamente alle emozioni e dov’è che le avvertite ? Esatto…sulla pancia ! E’ il cervello enterico il primo a recepire gli input esterni e in frazioni di millisecondi, instaurare una strettissima comunicazione con cervello cardiaco e cervello encefalico.

In conclusione, che vi piaccia o no le “scelte di pancia” sono le prime che (anche e sopratutto inconsciamente) fate e solo dopo razionalizzate con i processi logici la “sensazione che avete avuto.

Vi ho un po’ complicato la vita ? Penso di no !

Se così fosse, è un nuvo spunto per ascoltarvi meglio.

A presto

 

SPORT – Il coach : uno strumento a servizio dell’allenatore

Maledettissimi coach !

Questa è la frase che sempre più spesso sento quando parlo con allenatori, preparatori atletici o direttori sportivi.

Purtroppo la percezione che il mondo dello sport ha di uno “Sport Coach” è distorta dai comportamenti non professionali, che alcune volte, diventano la “baseline” con la quale, chi fa questa attività, viene bollato. Dall’altra parte la cultura del coaching sportivo è relativamente nuova nel panorama italiano e quindi, lo scetticismo regna sovrano.

Come sempre non possiamo fare di tutta l’erba un fascio e per contro, non possiamo nemmeno pretendere che il mondo sportiva sappia nel dettaglio cosa fa uno “Sport Coach” quindi , prima di tutto chiarire che cosa è, e cosa non è un coach (e il coaching” in generale) e quali sono le regole del gioco, è la base di partenza per non incappare in situazioni che potrebbero venire mal interpretate.

Se da una parte chi fa coaching sportivo viene guardato un po’ di traverso, è vero anche che sport e coaching, è un connubio che sempre più spesso sta portando risultati eccellenti, sia per gli atleti che per gli allenatori o per le società sportive in genere, a patto che vengano rispettate dalle parti in questione, alcune semplici regole di base, che sono fondamentali per lo svolgimento di una attività in sinergia, volta al miglioramento delle performance di un team.

Ho sentito frasi de tipo : “…un mental coach ? Per fare cosa ? I nostri atleti non hanno problemi mentali !”

Ok. Fermiamo il nastro e ricominciamo da capo.

Prima di tutto facciamo un po’ di ordine e chiariamo una volta per tutte che cosa NON E’ IL COACHING.

Il Coaching, non è psicoterapia, non è counseling e non è consulenza.

Il Coaching invece, è un servizio professionale esercitato in diversi ambiti e consiste in un metodo di sviluppo dei singoli, dei gruppi e delle organizzazioni, basato sul riconoscimento, la valorizzazione e l’allenamento delle potenzialità di un sistema, per il raggiungimento di obiettivi definiti dal cliente (atleta/allenatore/squadra/società) e con l’eventuale committente.

Il processo di partnership tra coach e coachee è basato su una relazione di reciproca fiducia. Le modalità di azione del coach nei confronti del coachee, sono volte ad un percorso che, facilitando il miglioramento e la valorizzazione delle competenze, ha come finalità il potenziamento delle risorse e della relativa percezione legata alle capacità intrinseche del soggetto, di raggiungere determinate performance e risultati.

Nel caso specifico di un lavoro su una squadra, il coach agisce in stretta collaborazione con l’allenatore, definendo con lui, tempi e modi di esecuzione per l’attività per cui è stato chiamato in causa.

Quindi, il coach :

  1. Mantiene una posizione neutra rispetto al contesto e ai ruoli dell’organizzazione entro cui opera
  2. Rispetta i ruoli, tempi e spazi entro i quali il “sistema” opera
  3. Diventa strumento dell’allenatore nel “leggere” determinati eventi legati alla comunicazione
  4. Agisce sempre in conformità a quanto definito con allenatore e società
  5. Evita tassativamente di prendere iniziative personali
  6. Non parlare di tecnica e/o di tattica e non esprime pareri o giudizi in merito 

Su quest’ultimo punto voglio sottolineare alcune cose importanti :

Il coach non fa l’allenatore, non fa il direttore sportivo, non suggerisce la formazione e sopratutto  non esprime giudizi o pareri tecnico/tattici.

Se la domanda lecita che vi fate adesso è : “Che cosa me ne faccio di uno Sport Coach ?” pensate a come potrebbe migliorare la vostra comunicazione all’interno del team sfruttando le competenze di chi ha strumenti mirati ad aumentare le performance degli atleti.

 

E’ solo uno spunto di riflessione, ma vale la pena fermasi un attimo e porci sopra l’attenzione.